Inaugurata il 10 luglio 2021, prosegue fino al 22 agosto la mostra

Boggeri, Boschi, Carrea, Coscia – Quattro amici pittori

tra naturalismo e astrattismo nel secondo novecento novese.

A cura di Gian Paolo Ghelardi
⁠Orari di apertura: sabato e domenica dalle 16.00 alle 19.00, dal 10 luglio al 22 agosto 2021

Ecco il parere esperto di Carlo Pesce:

Vito Boggeri ha uno stile inconfondibile, estrinsecato attraverso una produzione
vastissima, fatta di decine e decine di lavori, perlopiù su cartone, un supporto così
apparentemente povero con colori che, così assemblati, si uniscono e creano delle
immagini che appartengono solo e esclusivamente a Vito Boggeri.
I suoi soggetti sono stati carichi di ironia, con titoli, fondamentali per la lettura e
l’interpretazione delle sue opere, giocati su accostamenti di parole che travalicano nel
concettismo, nell’arguzia, nella retorica più colta. Gli elementi costitutivi delle sue pitture
fanno riferimento all’arte concettuale, un concettuale raffinato, carico di elementi che si
sono stratificati e che corrispondono alla somma delle esperienze artistiche che sono
apparse sulla scena a partire dagli anni Cinquanta. Sicuramente c’è un’anima
espressionista che unisce quasi tutta la sua, con quell’attenzione particolare al figurativo
che, è stato per Boggeri punto di partenza e di arrivo.
Boggeri è protagonista di un’arte che ha saputo aggiornarsi continuamente, attraverso un
silenzioso confronto con l’interno e l’esterno. La grandezza di Boggeri è stata quella di
non essersi mai fermato, di avere avuto il coraggio di variare, lentamente, anche negli
ultimi anni della sua vita.
È come se si affermasse una filosofia concreta che non sa calarsi nel particolare e nel
quotidiano tende a fissarsi in regole astratte, che rischiano di diventare norme inalterabili
e in quanto tali, inaccettabili per il pensiero di Boggeri. Ciò che rappresenta si lega alla
concretezza del vivere, dell’agire, un pensiero che si può muovere liberamente, senza tabù che lo costringa a interrogarsi. È per questo che si giustificano le scelte formali di Boggeri, quali la deformazione, l’uso libero, cioè non naturalistico del colore e la materia pastosa.

Le opere di Albero Boschi evitano il ricorso a drammatiche rappresentazioni primordiali
della materia, non si assiste a un mischiarsi magmatico che fa emergere grumi di catrami
dal centro della terra, dal profondo dell’anima del mondo. Il suo modello rappresentativo
è esterno e procede attraverso l’indagine del paesaggio che egli osserva – e rappresenta – da un punto di vista ravvicinato, talmente a contatto con l’occhio da perdere la propria
percettibilità visiva, riconducibile all’esperienza del quotidiano. Ne fuoriesce
un’esplosione cromatica che avvolge totalmente l’osservatore, trascinandolo all’interno di
un mondo di pura sensazione. L’opportunità di poter “entrare” nell’opera di Boschi può
avvenire poiché il quadro proietta un’aura che contamina parte dello spazio che lo
circonda e ne mette a contatto quasi forzoso il fruitore. In questo caso il significato del
termine informale assume un particolare etimo: la preposizione “in”, che almeno
inizialmente esprime una sorta di moto a luogo, in un secondo momento finisce per
identificare lo stato in luogo che si determina rimanendo immobili a osservare la
struttura dipinta da Boschi.
In questi termini si conclude un lavoro che ha almeno due fasi di sviluppo, due fasi
tradizionali in cui il pittore elabora mentalmente una situazione per poi rappresentarla
secondo una sua particolare sensibilità. Lo spazio vene plasmato con pacate stesure di
colore che si destrutturano a contatto con altre stesure. La forza di queste opere sta
proprio nel fatto che esse vengono realizzate badando soprattutto alla volontà di dare
un’immagine percettiva della natura. Essa viene evocata come complesso di colori che
danno un’idea di una forma di riferimento. Chi osserva cerca di cogliere alcuni frammenti
di realtà cercando di individuare dei nessi all’interno di un gorgo che ci avvolge
completamente. All’istintivo tentativo di cercare una sicurezza nell’attaccarsi alla
leonardesca teoria delle forme, si sostituisce un più poetico “lasciarsi andare”, un sereno
fluttuare in un universo le cui dimensioni non possono essere messe in relazione a nulla.

Anselmo Carrea aveva il dono di far apparire una verità che era lì, invisibile perché
assolutamente sotto gli occhi di tutti, talmente evidente che sembrava troppo banale da
essere considerata, come quel poeta che sa universalizzare il proprio sentimento
donandolo a tutti.
Ovviamente, anche di fronte alle sue opere non si riesce immediatamente a comprendere
il senso di un lavoro difficile, fatto, in particolare, di morbidissimi segni che si perdono
nell’atmosfera. Carrea non dà una chiave di lettura univoca, egli rimanda a sensazioni che via via si presentano agli occhi di chi osserva, come avviene nella percezione della realtà dopo essere stati abbagliati: le cose continuano a sfuggire, ma alla fine assumono una loro credibilità tangibile. Parafrasando Cartesio, esse sono in quanto esistono come
concretizzazioni di idee.
Carrea pone i segni delle sue sensazioni su strutture già logorate dal tempo, adopera
materiali che stanno subendo la sua azione. L’artista rispetta la patina organica che si
deposita sulle cose, sa che è ciò è fondamentale, sa che senza il tempo nulla può esistere, e ne prende atto. È allora in questo modo che ci si deve porre di fronte ai lavori di Carrea.
Essi non possono essere pensati come astrazioni tout court, sono rielaborazioni di
monologhi interiori, di riflessioni che nascono dopo aver saputo parlare con la natura.
Carrea, in fondo, altro non è che un paesaggista, l’interprete di una memoria che affonda
le sue radici in uno spazio così riconoscibile, un microcosmo che egli rappresenta
attraverso il rigore di un segno preciso e riconoscibile e che lo fa percepire attraverso il
silenzio della pausa tra due parole.

Di Aldo Coscia, si può rilevare che la sua arte è quella in cui più ci si trova a contatto con qualcosa che si fonda su una sostanziale semplicità tecnico/figurativa. Essa, infatti, si basa sullo studio di alcuni elementi che tendono a ripetersi nelle sue pitture. In particolare, scorrendo l’infinita serie di lavori sparsi tra collezioni e lasciti, si tratta, da una parte, del paesaggio a ridosso della campagna novese caratterizzata dall’immancabile gelso, dall’altra, di una sorta di “natura morta” consistente nella rappresentazione di un oblungo vaso di fiori. Ciò che cambia e che rende dissimili tutti questi lavori è, ovviamente, il tempo in cui furono realizzati e il supporto.
La prima condizione determina un plusvalore psicologico che induce il pittore a fissare dei
particolari che evocano sfumature di serenità o di angoscia. Il supporto è, al contrario, da
considerarsi come una parte importante della sperimentazione di Coscia: ante di porte,
fondi di armadi, frammenti lignei, oltre a quelli più tradizionali, diventano spesso l’area
sulla quale poteva appuntare l’ennesima ripetizione della sua arte.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.