Siamo ormai alla fine dell’anno scolastico e ciò vuol dire per chi frequenta le scuole di ogni ordine e grado, l’inizio delle vacanze. Tanto più ora che ci si può muovere con più libertà rispetto ai mesi passati in cui, a causa della pandemia, i giovani sono stati costretti a casa davanti ad un video per frequentare gran parte dell’anno scolastico.

Ma ecco, vorrei ritornare alla memoria di quando noi, ora più grandi, iniziavamo le vacanze. Ognuno di noi avrebbe chissà quanto da raccontare. Io lascio il racconto alle righe che seguono.

di Benedetta de Vito

Quando, finite le scuole, era tempo per noi di partire per la Sardegna, la casa di Roma sembrava già patire, in agonia, la nostra mancanza, in presenza allegra di fratelli in litigio. I mobili si vestivano, come spettri, di bianco, tutto profumava di cera, e il silenzio avvolgeva le mie bambole, coperte da un foglio di naylon, che doveva serbarle, secondo mia madre, dalla polvere. Per me, era triste guardale così, come addormentate, sotto un velo. Così, dopo aver scelto Giovannino e Barbie Malibu, in camera, non entravo più e, stretti gli occhi, chiuso il cuore alle mie pupe, mi dicevo pronta per partire.

Noialtri, via, prima in macchina, pressati uno contro l’altro, spalla a spalla, nella pancia della Peugeot amaranto di mio padre, con la mamma e la nonna Lisetta, e poi ingoiati nella caverna di Aladino della nave che, piena di luci, ci aspettava al molo e pareva darci il benvenuto nell’allegria del viavai dei passeggeri e degli uomini del porto. Non era, la nostra, la partenza per le vacanze, ma – come diceva la nonna Lisetta, per la “villeggiatura”. In villeggiatura, non in vacanza, veniva, infatti, la famiglia intera, comprese la Mimma, che faceva i lavori in casa, la nonna, che sempre vestita di viola se ne rimaneva in casa tutto il giorno, e la signorina inglese che per molti anni fu Jane (ed era australiana) e poi altri nomi con visi attaccati, ma sfumati nella mia memoria e niente d’amore come per la mia Jane.

Vacanze non erano perché, in villeggiatura, ci si spostava semplicemente da una casa all’altra (entrambe di proprietà) e lì e qui vigevano le stesse identiche leggi, i doveri, le spartane usanze di casa de Vito. Vacanze non erano perché la vacanza è sospesa nel vuoto del nuovo, dell’inaspettato, delle sorprese, mentre la villeggiatura è monotono ripetersi del qui arcinoto, come le tasche del paletot, semplice cambio di giardino e di luogo, ma nel medesimo concerto di cose e persone. La villeggiatura era antica usanza che, a casa mia, si svolgeva, appunto, da Roma alla casa-capanna di Cala Girgolu che ancora adesso respira sotto il manto della Madonna, sferzata dal vento del maestrale. Usanza che durava, a quei tempi, da giugno a ottobre e ora non più.

La vacanza, infatti, venne anche per me, molti anni dopo, quando cominciò la diaspora. I gemelli in Thailandia, la sorella in Turchia, mio fratello Marco in Siria, io a studiar portoghese a Lisbona. Eran vacanze, in scompigliato disordine dell’un che arriva e l’altro che parte, e via vai continui con l’unica certezza dell’ovo sbattuto che Sor Mario, il guardiano di casa, faceva a ognuno di noi al metter piede in casa. Per il resto era tutto in disordine e diverso, a capo in giù a volte, e altre messo in diagonale. Si cambiavano orari, cibi e si incontravano nuove persone, alcune noiose tanto. Si, vacanza è vivere in un nuovo che scompagina regole e abitudini. E’ appunto vacanza del vecchio e immersione nel nuovo. Villeggiatura è vivere l’uguale in un posto diverso.

Le mie amiche, quelle moderne, che erano al massimo due figli in famiglia (noi cinque), cioè espressione della famiglia anni Settanta, partivano per le vacanze già quando per me esisteva soltanto la villeggiatura. E andavano a volte anche fino alle Maldive e, tornate, mi mostravano le foto esotiche, nel bel mare azzurro e gli incontri nuovi, i ragazzi. Le invidiavo un poco perché a Cala Girgolu c’erano sempre gli stessi amici che, come me, vivevano in famiglie antiche le quali, appunto, non in vacanza andavano, ma in villeggiatura.

Sì, le invidiavo perché mettevano in valigia quel poco che avrebbero indossato, un costume, le magliette, il vestitino rosa mentre io, a Cala Girgolu, avevo già tutto quanto e valigie (a parte le bambole) non le facevo. Sì, le invidiavo per quei nomi sconosciuti che, masticati da loro, coloravano il cielo di rosa e rendevano mitici spiagge, arenili, barche, discoteche. Sì, le invidiavo, ma un giorno un’amica scrittrice che ora compie cent’anni mi mostrò una bella foto in dagherrotipo Ottocento. E c’erano Pirandello e la sua attrice preferita, Marta Abba, nella bella villa che prendevano in affitto a Viareggio per la villeggiatura. E anche la loro, così signorile, pur nella stranezza dell’accoppiamento (la moglie pazza di lui viveva reclusa in un ospedale psichiatrico) e loro due, pur non sposati e innamorati, erano non in vacanza, ma in villeggiatura. Il nuovo nel vecchio. C’è del nuovo nel vecchio, anzi nell’antico. E ora che non posso più farla, mi manca la villeggiatura…

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