«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861».

Queste parole rappresentano il testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna. Pochi giorni dopo quel 17 marzo, lo stesso testo sarebbe diventato la legge n. 1 del Regno d’Italia. Era nato un Regno, era nato uno Stato unitario laddove, appena un paio d’anni prima, ve n’erano addirittura sette.

Il primo dato che emerge dall’analisi del testo è che il numerale che accompagna il nome del sovrano non viene modificato: è sempre Vittorio Emanuele II, non I come avrebbe voluto larga parte dell’opinione pubblica patriottica. Il dato è significativo e tutt’altro che simbolico. “Vittorio Emanuele I” avrebbe sottolineato la specificità e la novità dell’Italia unita. “Vittorio Emanuele II”, invece, significava implicitamente che il nuovo Stato era l’allargamento territoriale del Regno di Sardegna e delle sue istituzioni.

La reazione internazionale alla proclamazione del Regno fu repentina e, in alcuni casi, entusiastica. Il nuovo Stato venne riconosciuto, nel volgere di poche settimane, dai governi svizzero, britannico e statunitense. Questi guardavano infatti con favore alla creazione di uno Stato mediterraneo abbastanza popoloso (oltre 22 milioni di abitanti) che fosse in grado di dare stabilità all’intero continente, attraversato in quegli anni dalla lotta tra Francia e Austria per il controllo dell’Europa meridionale e dalla contrapposizione franco-britannica per il dominio delle rotte mediterranee.

Il Regno d’Italia era stato dunque “generato” da una decisione presa dal Parlamento riunito a Torino, nella sede di Palazzo Carignano. I suoi rappresentanti erano stati eletti pochi mesi prima, nel gennaio dello stesso anno, e la loro provenienza già aveva attestato la realizzazione, de facto, dell’Unità. Le elezioni si erano infatti tenute in tutte quelle regioni che, attraverso i plebisciti, nel corso dell’anno precedente avevano chiesto l’annessione al Regno sabaudo.

In quel Parlamento una grande maggioranza degli eletti si riconosceva apertamente nelle posizioni politiche di Camillo Benso di Cavour. E, infatti, fu proprio il conte piemontese a ricoprire, per primo, la carica di presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia. In quell’esecutivo il conte ricopriva anche i dicasteri della Marina e, soprattutto, degli Esteri. Gli altri ministri erano specchio dell’unità appena dichiarata. Alla Giustizia un piemontese (Cassinis), all’Agricoltura un siciliano (Natoli), alla Guerra un emiliano (Fanti), alle Finanze un livornese (Bastogi) e ai Lavori pubblici un fiorentino (Peruzzi), all’Istruzione un napoletano (De Sanctis).

Ma, improvvisamente, ad appena una decina di settimane dalla proclamazione dell’Unità, Cavour, il principale architetto dell’Unità, moriva a soli 51 anni nella sua residenza di famiglia, probabilmente stroncato dalla malaria (a dispetto delle tesi complottiste succedutesi nel tempo). Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali in piazza San Carlo, a Torino. L’intero paese aveva perso, forse nel momento di maggior bisogno, uno statista le cui qualità sarebbero state rimpiante da molti.

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