Mi piace qui di seguito proporre uno scritto di Dino Bergaglio, tratto da “I racconti dell'«Osteria»” e pubblicato nel 2000. Racconta del pane, di come era il rapporto con questo alimento al tempo dei nostri nonni.

Il pane, un tempo, era l’alimento per eccellenza e pur nella sua semplicità apportava all’organismo umano tutti quei principi nutritivi indispensabili alle diete dei nostri antenati. Oggi il pane è solo una componente dell’alimentazione quotidiana e viene proposto al consumatore sotto le forme e i sapori più diversi e allettanti.

I forni si sono trasformati in vere e proprie boutique del pane presentandoci il giusto pane per il giusto companatico. Così abbiamo funghi e salamini che si sposano perfettamente con i pani casarecci, le uova chiedono michette, i formaggi molli e a pasta dolce vorrebbero pane bianco piuttosto farcito, con gli stagionati quello toscano, i pani bianchi raffermi sono ottimi per arrosti e carni alla griglia. Abbiamo poi morbidi panini soffiati, baguette francesi, pani aromatizzati con le erbe, grissini, pani integrali, focacce.

Fino agli anni cinquanta il pane veniva preparato e cotto in casa e solitamente aveva un’unica forma: quella di una grossa pagnotta. A Tassarolo chi non aveva il forno proprio portava l’impasto già pronto e suddiviso in micche, usando per il trasporto la tavola della madia – a mastreta – portata in testa dalle donne, presso il forno comunale posto nell’edificio del vecchio asilo, dietro la chiesa di San Nicolao in via Garibaldi, all’angolo del vicolo A Gemme odierno. Conduceva il forno, a legna ovviamente, il cugino di mio padre Davidein (Davide) primogenito della zia Giacinta sorella del nonno Dein. Per la cottura si pagavano poche lire, oppure si compensava la spesa con fascine di legna portate da casa.

Anche il pane protagonista indiscusso della tavola dell’Osteria, era di qualità e forma unica: la micca o micón. Il forno era ubicato nel retro della cascina dalla parte che dava sul rio. Quando veniva il giorno di fare il pane gli zii preparavano le fascine di legna nel forno con una manciata di paglia ben asciutta in modo da poter accendere con facilità il fuoco che lo avrebbe riscaldato. Legna e sarmenti, in modo particolare ir pugòse le potature delle viti, alimentavano le fauci del braciere ardente dove le micche si vestivano di colori e profumi che stuzzicavano l’appetito. In quell’occasione si percepiva il crepitio della legna che bruciava nella nera caverna infuocata dando vita a spirali uguali ad anime pungolate da mille diavoletti dispettosi. La nonna e le zie curavano che il forno diventasse quasi bianco dal calore quindi, con una scopa precedentemente preparata con rami e foglie dell’Albero del Paradiso, u Spisù, mettevano in un angolo la cenere e la brace e pulivano il piano di cottura dove sarebbero state deposte con religiosa attenzione le bianche micche da cuocere.

L’impasto era approntato all’alba mettendo il lievito di pasta acida, ir carsainte, la sera innanzi e il mattino presto si impastava farina setacciata per separare l’eventuale cruschello rimasto – a cua, con acqua e sale. Il lievito naturale si forma spontaneamente nella pasta di pane lasciata all’aria w che veniva prelevato dall’impasto del pane precedente. Il lievito di pasta acida contiene diverse specie di Saccaromices cerevisiae che fanno lievitare il pane molto lentamente e durante la cottura di quel pane si formano sostanze aromatiche che lo rendono massimamente profumato, mentre la mollica risulta particolarmente fine e regolare. Il lievito di birra era usato raramente e le polveri lievitanti odierne erano del tutto sconosciute.

La nonna e le zie preparavano dunque le bianche micche sulla tavola della mastreta, le coprivano con un panno per tenerle al caldo in modo che potessero lievitare alla perfezione, mentre aspettavano la giusta temperatura del forno. Quando tutto era pronto per infornare le pagnotte, si praticava un leggero taglio sulla superficie di esse, si segnavano con il segno di croce affinché il Signore contribuisse alla buona cottura e si introducevano una dopo l’altra al caldo. Sfornato, il pane veniva riposto ancora tiepido nella madia e il suo profumo si spandeva per tutta la valle dell’Osteria.

Il pane non veniva mai sprecato. Quello raffermo si usava inzuppato nel latte della colazione mattutina, nel vino o nel brodo di gallina. Guai a far briciole o farlo cadere per terra. L’esortazione della nonna, rivolta a noi nipoti, era: “attenti a non far cadere briciole in terra perché quando sarete morti il Signore vi farà raccogliere quelle briciole e riporle in un cesto senza fondo…in t’in cavognu sainsa cü”, e questa esortazione ci metteva una certa apprensione addosso. Si può immaginare l’attenzione che mettevamo quando si mangiava una fetta di pane. Se proprio si era costretti a dover gettare qualche pezzo di pane c’era il cane, i gatti o le galline che lo aspettavano avidamente.

Quando si portava la colazione, la merenda o il desinare lontano da casa, per non perdere tempo negli spostamenti, la componente principale del pasto erano proprio alcune micche di pane con stracchein (gorgonzola), frittate, uova sode, insalate. Il giorno di Natale, ultimato l’abbondante pranzo di mezzogiorno, si preparavano tante fette di pane quanti erano i bovini presenti nella stalla distribuendole ad ognuno di essi, perché conoscessero anche loro la sacra ricorrenza.

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