Quando Elisabetta Canori Mora andò a vivere, con la sua famigliola, nell’appartamento dei suoceri alto nel bel palazzo Selvaggi, affacciato sulla Via del Corso, ebbe un cruccio grande: quando giungeva febbraio, doveva riuscir a tener chiuse le imposte alle finestre per impedire alle due figliolette, Marianna e Maria Lucina, di guardar gli scandali delle sfilate del Carnevale romano. Nera era la notte, una tentazione a ogni licenza, mascherati i romani e i forestieri, nobili, ricchi, poveri, tutti immersi nella febbre del caos che, d’un tratto, pagano, arcano, inquietante, esplodeva nella Città Santa. Era la festa, antica, della febbre, cioè di Febbraio, la festa della malaria e della purificazione, che poi fu il Carnevale. Si accendeva nel fuoco, che purifica, ed era la notte dei “moccoletti”, i piccoli ardenti ceri che i malati di febbre (cioè chi partecipava alle feste) portava a simbolo di guarigione.
Il Carnevale, che salutava il mangiar carne (carne, vale! Carne, addio!) era dunque il periodo della febbre che poi, però, passava – così come accade oggi pure – e nelle ceneri, in cui plasticamente si disfaceva, ecco cominciar la nuova vita, la Quaresima e la Pasqua della Rinascita in Cristo. Ma il senso profondo dell’inversione del Carnevale, già ai tempi di Elisabetta, si era perduto. Della sua profondità restava solo l’ombra, della verità la smorfia del demonio. Porte spalancate al mondo a gambe all’aria. Il peccato contro la legge di Dio diventava legge. Già allora la febbre durava non i giorni della festa, ma, sotto pelle, l’anno intero…
Poteva chiudere le finestre, Elisabetta, che viveva, gioiosa, nella Comunione dei Santi (come in letizia, anche se in continua guerra contro il diavolo, vive chi è nel cuore della Trinità) e lo faceva, ma le sette segrete che, in quegli anni, anch’esse come una febbre oscura, si muovevano all’ombra del Cupolone, lavoravano alacremente per mettere il mondo, così com’è oggi, all’incontrario e trasformare il bello in brutto e il buono in cattivo. Marianna, la figlia maggiore, non capiva sua madre, viveva i tempi nuovi, voleva maritarsi, vivere nel mondo. Maria Lucina, invece, si fece monaca di San Filippo Neri. Marianna si sposò, visse nel mondo, e prima di morire, capì sua madre che era vissuta nella verità. Ma il mondo, intanto, aveva sposato le tenebre, girando la schiena alla Luce. Sapete perché cattivo vuol dire cattivo? Ci vengono incontro la filologia e la semantica che sono sorelle e si tengono per mano. La prima, che racconta l’origine delle parole, dice: “Cattivo vien dal latino captivus e vuol significare prigioniero”; la seconda che spiega invece l’uso che della parola si è fatto nei secoli, ragiona: “Ed è perché nel Medio Evo l’uomo maligno era “captivus diaboli” che si è finiti per dir cattivo di una persona che il bene lo conosce poco. Ed ecco che la parola cattivo, perduta la coda, si fa termine qualunque, color grigio topo. Il capolavoro del demonio che, come si sa, lavora alacremente per fingere di non esistere! Anche nel saluto, anche se a fin di bene, siamo schiavi perché ciao è ciancicamento di sciavon, alla veneziana. I romani, invece, auguravano la buona salute, nel loro vale, salve…”
Prigionieri del diavolo, schiavi del mondo, gli uomini, inseguendo i lumi della finta luce (lucifero, la stella lucente che non è il sole) scelsero, con superbia, il Carnevale, ovvero non la purificazione dalla febbre, ma l’immersione nel male, nel tradimento della legge divina, che oggi è la realtà in cui viviamo tutti, sempre e che si moltiplica nei media. Io, alla sera, stanca della giornata che mi porta di qua e di là, tra doveri, commissioni, faccende e altro girovagare, accendo la televisione e, trovando, tutto l’anno, nel piccolo schermo, il Carnevale, il mondo al contrario, precipitata di nuovo nell’inversione ossessiva che vuol cambiare l’anima, insegnando, fin dalle fasce la turpitudine e l’orrore, faccio come Elisabetta, e, stanca di parole, chiudo le imposte, cioè la tv, e me ne vado a letto.
Non così i Santi che han sempre tuonato contro il Carnevale. Da Sant’Antonio a San Carlo Borromeo, fino a San Giovanni de la Salle che paragona i “cattivi cristiani” del Carnevale agli uomini che torturarono e uccisero Nostro Signore. I giocatori? Sono come i soldati romani che “tirarono a sorte la tunica del Signore”. I nottambuli? Somigliano “a Giuda e a chi era con lui quando approfittarono della notte per catturare Gesù”. E così via. Il perché è semplice da capire. La vita cristiana, allegra, piena di gioia, è ordinata, nella pace e respira nella profondità dell’anima che è unita a Dio. Somiglia a quella del codirosso che a volte viene a trovarmi, facendo capolino tra i ciclamini del mio davanzale. Viene forse dall’Africa e non appare stanco, ma allegro sempre. Canta tutto il giorno la gloria del Signore nel suo bel vestitino di piume, la codina d’un rosso acceso. Mangia le sue bricioline, vola felice nell’aria tersa, nutre i suoi piccolini, e poi la notte, chiuso il becco tra le penne, a dormire…
Ed ecco perché chiudo le imposte alla televisione che rimanda, al quadrato, ciò che già vedo nel mondo. Sì, il mondo mi basta e non ho voglia di rivederlo, riproposto anzi al cubo, sul teleschermo. Sì, mi ripeto, mi basta quel che vedo, mentre penso ad Elisabetta, che ora, Beata, vive la vita vera nelle dolci Mani del Signore, mentre le sue dolci spoglie sono nella stupenda Chiesa trinitaria di San Carlino alle Quattro Fontane. E a volte, quando il cuore mio non regge più, sono lì con lei nella piccola cappella che è l’ultima dimora dei suoi resti terreni. E con lei si stira il cuore mio.
Se nel mondo, il Re Carnevale regna incontrastato, anche nella Chiesa, che amo come gli occhi miei, non va tanto meglio. E, d’un tratto, penso a un francescano di nome Antonio che conobbi molti anni fa e che aiutavo nelle sue buone azioni. Che poi si concretizzavano in un mercatino per i poveri che s’apparecchiava nella sacrestia della sua chiesa. Davamo via panni e panini, ma prima, tutti i poverelli, con sporte e carrellini, dovevano ascoltar la messa. Ed era bella e piena quella messa un poco derelitta, con la varia umanità che, pur attendendo sciarpe, coperte e cappelli, ascoltava senza batter ciglio, le lunghe omelie di Padre Antonio, che spesso parlavano del demonio. Poi un giorno, per faide interne che non ho capito, il Padre fu spedito non so dove o forse lo so ma non lo scrivo e al suo posto venne un francescano moderno, gran parlatore, che alla sera, ancora oggi, riunisce molti giovani e, in chiesa, ognuno racconta la sua esperienza matrimoniale o lavorativa, voltando le spalle al tabernacolo. Andai, una volta soltanto, a una delle serate spirituali, e la chiesa, calda quando c’erano i poveretti di Padre Antonio, mi sembrò gelida nel latinorum di quei fedeli, pur bravissime persone. Ricordo che un frate che conoscevo sedeva in un banco e si era portato una gran coperta per coprir le gambe e il cuore…
Sì, anche nella Chiesa, sembra comandar il mondo all’incontrario, la terzana, se è vero, come è vero, che un parroco che conosco, il quale ha il merito di aver svuotato di fedeli la sua chiesa e che, in un’omelia, se la prese con quanti, in orazione, fanno i “beghini”, presto, così mi han detto, sarà Vescovo. Ma la febbre, io lo so, non dura e dopo Febbraio viene Marzo e poi la primavera della Pasqua nel Signore…
di Benedetta de Vito