Eccoci al 6 di gennaio, Festa dell’Epifania. Secondo la tradizione arriva la Befana a riempire la calza coi suoi doni; secondo i vangeli arrivano i Re Magi. Questa è l’ultima festa che poi tutte si porta via.

Buona lettura! E buona Epifania…

Quando la casa è ancora addormentata, io, che sono andata a dormire poco dopo i pettirossi e i merli, infilate le sayonara, entro in punta di piedi nel salone dove il divano riposa in gran rilassamento, vuoto di noi. Nero, finalmente, è lo schermo del drago insonne e, sulla credenza sono tra le braccia di Morfeo anche i miei ninnoli: le bianche colombine, che paiono di zucchero, del ristorante veneziano “Trattoria alla colomba”, la pavoncella sarda, color biscotto, il cavalluccio dorato stanco di correre.

Al mio arrivo, il magico risveglio loro. E sembrano, silenziosi come sono, darmi il più caro dei benvenuti. Anche oggi, giorno dell’Epifania, sono entrata a lume spento nel salone e quindi nel mistero di Betlemme, per tramite del mio piccolo presepe, e, accesa soltanto una candela al profumo di cannella, un lumino nelle tenebre, ho messo i tre magi intorno alla mangiatoia. I Re d’Oriente, in ginocchio, davanti al Re dei Re.

Come dovrebbe essere anche ora per i politici del mondo, re, presidenti, primi ministri, tutti. E non è perché essi, superbi, sdegnano l’umiltà che è invece segno del cielo e dell’autentica grandezza. Come sapevano gli antichi.

E prima di continuare, tanto per render chiaro il concetto che ho sopra esposto, un salto a piedi pari nell’Impero asburgico dove il rituale della sepoltura degli imperatori è primavera di rivelazione. Bussavano alla porta del convento dei Cappuccini, e alla domanda del religioso: “Chi bussa alla porta”. Il nobilissimo deceduto, per bocca di un inserviente, rispondeva a scivolo titoli a non finire e nomi e cariche e marsine e corone. La risposta era: “Non lo conosco”.

Ribussavano ancora e ancora e, man mano, via tutti i fronzoli, finché non rimaneva soltanto il nome di battesimo. Per dire, Giuseppe. Le porte si aprivano. Anche nella grotta di Betlemme, Gesù è un nome e basta e avanza per far piegar tutte le ginocchia. E così pure i magi che han nomi dal sapore d’oriente, come dall’oriente, giunsero seguendo la stella. Gaspare che vuol dire “amabile maestro” (e lo fu), Melchiorre, cioè “Dio è luce” (eccome se lo è!) e Baldassare che è un augurio di buona vita per il Re.

E’ festa grande, oggi, per la Chiesa perché in questo santo giorno il Signore si rivela al mondo per ciò che è: Creatore, Signore, Padrone di tutto e soprattutto nostro Padre adottivo. “Epifaino”, in translitterazione italiana, è verbo greco che significa appunto manifestarsi, mostrarsi. Gesù, attraverso l’adorazione dei magi, che snobbano Erode, piccolo re nel tempo, è unico vero Dio, unico Re dell’Universo.

I doni per Lui sono simbolo della sua regalità terrena e ultraterrena. L’oro, che è il metallo dei sovrani e della purezza, l’incenso che, bruciando, arriva fino al Cielo, creando un ponte spirituale tra il mondo e le altezze, la mirra, simbolo di morte e di resurrezione. I tre doni dai magi che venivano dai tre Continenti allora conosciuti. Tutta le terra, in giubilo ed esultanza, loda il Bambino di Betlemme e noi, ancora oggi, con loro nel venite adoremus che si canta nelle chiese o nel silenzio di ogni anima.

E’ dunque giorno di festa e di doni, oggi, e come i tre magi portarono i loro regali al Bambino, così noi affidiamo alla Befana, che è semplice ciancicamento lessicale del verbo greco (da Epifaino a Befana), il compito di portare ai bambini buoni i suoi dolciumi, cioccolato, caramelle, liquirizia nelle calze colorate che si comperano al supermercato. La Befana, nel tempo, è diventata una vecchietta col naso adunco e un porro sul naso a cavallo di una scopa, cioè una strega.

E ora che ci penso io una strega forse l’ho conosciuta e se avrete la pazienza di leggermi ancora un poco vi parlerò di lei. Ogni martedì e giovedì, prima che la Mimma diventasse una di famiglia, a fare i servizi in casa veniva una certa Caterina che, per via delle sue radici calabresi, si era guadagnata, chissà poi perché, il raddoppio di tutte le consonati del nome. E dunque era “la Catterrinna”. Questa Caterina qui, nera pece, con il naso che le pioveva sul mento, a me pareva una fattucchiera. Pasticciava con erbe e unguenti e in tasca, cascasse il mondo, aveva sempre un mazzo di tarocchi che era pronta a sciorinare sul tavolo e due chicchi di sale grosso buoni, diceva lei, per scacciare il maluocchio. Generosa di carte, avara di parole. Gli occhi di pepe parlavano.

Un giorno si presentò con due delle tre figliole. Non ricordo i volti delle bambine, che erano più o meno coetanee mie, ma i loro nomi sì che li ricordo. Eccome, La più grande si chiamava Selene, come la figlia di Cleopatra e Antonio, Trigonella la minore. Nomi da friggere in padella per mia madre, nomi che a me, invece, restarono cuciti all’anima. Molti anni più tardi seppi che Selene era la Luna.

Trigonella restò un mistero finché un pomeriggio d’inverno andai con marito, figlio e suocero a visitare l’orto botanico di Padova. Un luogo di silenzio, vuoto di gente, pieno di spirito silvano. Vidi la palma di Goethe, una verde vegliarda, vidi ciliegi giapponesi e, nelle serre dove si respirava vapore condensato, persino delle piante carnivore che mi parvero tali e quali alle loro sorelle perché non tradivano dal fuori il loro dentro… Ma fu tra le umili pianticelle officinali che ritrovai, con gran sorpresa, la mia Trigonella. Un fragile arabesco verde per streghe calabresi…

di Benedetta de Vito

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