Il Natale…. Dal latino “dies natalis”: giorno della nascita.
La maggior parte delle persone pensa che il “Natale” sia la festa che secondo la tradizione religiosa cristiana si celebra il 25 dicembre e commemora la nascita di Gesù Cristo.

La festa del 25 dicembre sarebbe stata istituita per contrapporre una celebrazione cristiana a quella mithraica del dies natalis Solis Invicti (giorno natalizio dell’invincibile Sole). La festa pagana del solstizio d’inverno era una ricorrenza importante per gli antichi romani, che in quel giorno celebravano la festa del dio Sole. Durante queste feste che andavano dal 17 al 21 di dicembre (“I Saturnali”) e la festa vera e propria del Sol Invictus del 25, il cui culto era stato introdotto dall’imperatore Aureliano, si usavano i simboli dell’eterna giovinezza di Dioniso: mirto, lauro, edera… Il greco Dioniso veniva considerato come il divino bambino nato in maniera miracolosa da una vergine celeste.

Ecco, lascio alla bravura di Benedetta de Vito descrivere una sua bella storia fatta di ambiente e di ricordi

La vigilia di Natale, stretta nell’Ottocentocinquanta color senape ereditata dal nonno Carmine, tutta la famiglia, quando non si era a San Giuliano dalla nonna, andava alla messa di Mezzanotte nell’Oratorio di Sant’Andrea, fratellino della gran chiesa di San Gregorio al Celio, che guarda, ieri come oggi, in faccia il Palatino. Era la messa del gruppo scout di mio fratello Marco: il Roma 51. L’automobile, come schiacciata da un Ciclope, svicolava tra le silenti strade romane e, a ogni svolta, partiva la freccia sonora -ping, ping, ping, inventata dal nonno, che era duro d’orecchi e che, in scandalo famigliare, lasciata la Chiesa cattolica, si era fatto valdese.

Gonfia di sonno, col freddo a mordermi le mani e le ginocchia nude, a occhi cuciti, caracollavo in macchina finendo schiacciata in un paciugo di fratelli, che escludeva Marco, già sull’attenti tra le erbe umide del Celio. La strada, pur breve mi pareva una odissea e faticavo a non far baciare le palpebre, mentre mia madre, bellissima, si annodava sotto il mento il foulard di seta, dicendo “che freddo, che freddo”. Il freddo c’era. Per sghiacciar i vetri dell’auto si usava una bacinella di acqua bollente…

Si parcheggiava il macinino ai piedi di una scalinata bianca e solenne che conduceva, dritto per dritto, in bocca alla gran chiesa dedicata all’antico Papa Gregorio Magno, di famiglia senatoria e che doveva dare il suo bel nome al canto liturgico della Chiesa cattolica. Salivamo, uno via l’altro, i gradini, ma a un certo punto, invece di proseguire, su per la scalea di marmo, noi via controvento. Svoltavamo sulla sinistra, infilandoci in un pertugio buio difeso da un cancelletto maleducato, che conduceva, con gran strepitio di ferraglia, in un giardino segreto. Entravo, guardavo: in alto un soffitto di stelle, buio il prato odoroso di tenera brina, le lucciole, lucine di vita, in danza tra i cespugli e l’erbe. Respiravo mentre, laggiù, davanti alla chiesa, illuminati da una luce d’oro, vedevo mio fratello, il mio eroe, e intorno lupi, lupetti, scout, Achela e Bagheera. Tutti, in attesa di noi, che venivamo ad ascoltare la Santa Messa celebrata da Monsignor Desiderio Nobels. Era nobels di cognome e di fatto. Fini i capelli bianchi, dolce il sorriso, emanava un alone di naturale autorevolezza e anche io mi mettevo, davanti a lui, sull’attenti e ancora adesso mi chiedo perché mai mia madre non volle mai farmi far la coccinella…

Nelle grida degli scout, fedeli al loro Achela, si accendeva la notte. Gli stendardi sghembi puntati al firmamento, la promessa allacciata in un nodo sotto al mento li faceva diventar tutti signori. Mi passava il freddo mentre ammiravo i soldatini in divisa da boy scout e mi innamoravo ora di uno con il mento prominente ora di un altro che aveva i capelli riccioluti fin sulle spalle. In chiesa, plebea in platea, avevo però occhi solo per Marco, che, come un punto esclamativo, faceva da sentinella all’altare. Resistevo un poco sì e un poco no. Il sonno mi faceva a volte cascar le palpebre. Allora, per tenermi grilla, giravo lo sguardo intorno e mi perdevo nei feroci affreschi, di Reni e di Domenichino, che adornavano quelle stanche pareti. Non ricordo un bel nulla dei supplizi del nostro Apostolo martire lì descritti con minuzia e arte, ma ricordo benissimo, come se l’avessi vista ieri mattina, la bimba bianca e rossa, stretta ai panni di sua madre, che mi fissava con occhi di gatto, occhi di marameo, dall’affresco del Domenichino.

Molti anni dopo la ritrovai, la mia bimba, in un gran quadro proprio del Domenichino, alla Galleria Borghese di Roma. Era lì, proprio lei, tale e quale, che si faceva il bagno in una polla, mentre tutt’intorno mulinavano, in un vortice di archi e frecce, Dee e ninfe cacciatrici. Lei, niente, mi guardava con gli stessi occhi di allora, occhi di marameo. E finalmente capii: il suo marameo era alla mia giovinezza fuggente. Lei sì, lei sola sarebbe rimasta per sempre così, fresca, bambina, bambina nel tempo…

Dopo la messa, il rinfresco. Nei piattini di plastica il panettone mi sembrava più buono e sedevo su un gradino di marmo, con il didietro ghiacciato. O forse dormivo, non so, perché, al mattino dopo, il giorno di Natale, mi ritrovavo nel piano di sotto del letto a castello che dividevo con Marco e pronta per il nostro piccolo Natale, di doni magri, di gran presepe, piccolo abete e cibi frugali. A pensarci bene non ricordo di aver ricevuto mai grandi regali a Natale. Forse, una volta, un Giovannino della Furga. Per Pasqua, una volta, lo zio Adriano mi regalò una bambola Cenerentola che aveva il vestito da povera e anche quello bianco, di raso, che doveva sposarla al principe. Una bambola che fu per me presagio.

Dopopranzo si andava dai cugini che avevano la coppia e anche l’autista, con il berretto a visiera. A bocca aperta, trasognata – salendo processionale le scure scale che conducevano al piano, ammiravo l’albero vestito di neve e d’oro, con le luci che si accendevano e si spegnevano, il tappeto di pacchetti ad attendere mani curiose, i dolci, i torroni in gran quantità. Poi ecco Lucilla, la piccola di casa, a prendermi per mano, corri, dai, corri e via, insieme, lei e io, su per le scale, di nuovo, quelle che portavano all’attico. Il fiato mio, mozzo, nella strozza, quando vidi un trenino che correva tra valli e montagne, Faceva tu-tuu, come i trenini veri, un piccolo capostazione col cappello rosso fischiava per davvero e in galleria si accendevan le luci. Molti anni dopo, già donna fatta, ritrovai quel trenino nello studio di un notaio.

Entravo. Lui, il mio notaio, mi veniva incontro, mi rapiva una mano e la teneva stretta tra due sue che di solito erano di ghiaccio. Poi, dopo aver chiamato la segretaria, srotolava su un tavolo presidenziale – lui a un capo e io di gomito – le carte necessarie e cominciava l’analisi del caso, mentre lo vedevo sfogliar nella sua materia grigia i volumoni del diritto pubblico e privato. Quando aveva fatto la messa in piega all’argomento, mi invitava a prendere un caffè nel suo studiolo che si trovava in fondo a un lungo corridoio, dove ci guardavano dall’alto certi vecchi ritratti di antenati. “Zio Giulio, zio Federico, zia Virginietta…”, faceva il mio notaio, con un baleno d’occhi che non gli conoscevo, indicando i cari estinti. E io, tra me e me,: “Piacere!”.
Sedevamo, uno in faccia all’altra. Prima che arrivassero signorina, capelli e caffè, lui, scusandosi, apriva lesto una porticina che lo inghiottiva. Pensavo, a buon diritto, che lo chiamassero le sue necessità. Rimasi quindi di sasso quando, un giorno, durante la cerimonia del caffè, il mio notaio, convocato al trotto in sala riunioni, uscì  dalla sua stanzetta, dando un colpo alla porta e senza voltarsi indietro. La spinta all’uscio non bastò a chiudere il battente e, quando nel rimbalzo, questo si spalancò, mi apparve come in un miraggio il suo segreto: correva torno torno alla stanza un trenino elettrico, montato su una pedana di compensato chiaro che riempiva l’ambiente ed era tutta quanta animata da figurine e alberi e casette. Mi alzai, in sveltezza, a serrar la porta e quando lui tornò mi parve che avesse seduto in testa un berretto da capostazione e negli occhi una scintilla. Io, invece, ero di nuovo nella mia personale notte di Natale…

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