Si avvicina il Natale ed arriva il momento di fare il presepe, una rappresentazione simbolica che, di anno in anno, ricorda la nascita di Gesù a Betlemme, in Palestina. Nel nostro paese è un’usanza consolidata, profondamente radicata nella nostra cultura. Ognuno di noi arricchisce la sua rappresentazione fino a trasformarla in un vero e proprio plastico con piccoli corsi d’acqua, personaggi di vario genere, animali, riproduzioni di mestieri…

Ecco, a tal proposito, ho chiesto a Benedetta de Vito di scriverne, alla sua maniera.

Dunque, buona lettura! Sarebbe bello che ognuno scrivesse del proprio Natale nei ricordi…facendo il presepe.

Attraversavamo metà Stivale, da Roma a Pordenone, pigiati nella Peugeot amaranto di mio padre, per raggiungere, in tempo per la Vigilia, il bel casolare rosa cipria di mia nonna, scivolato dalla tasca di un gigante buono nelle basse friulane. Splendeva, ai miei occhi bambini, l’autostrada del Sole, quasi appena nata. A Ferrara, l’odor nauseante delle marcite, giunti a Pian del Voglio, mio padre minacciava di far scendere i gemelli e quando il tabarro nero della sera scendeva a coprire la terra, cominciava, per mio fratello Marco e per me, la conta degli alberi di Natale e dei balconcini illuminati dalle sferette di luce variopinta che si accendevano una volta passata la Pianura Padana. All’arrivo, nello strider del ghiaietto sotto le gomme, esplodeva nel buio il profumo orientale del Calicanthus, c’era l’abbraccio della nonna e della Eva e c’erano gli zompi matti di Pippo il cane di casa con il suo pancino d’oro e il dorso bruno. Corri corri, bisogna fare il presepe perché la nonna così voleva. Che fossimo noi bambini a farlo insieme con lei…

Le valigie, i fagotti, panni e libri, domani, prima Gesù Bambino. Si preparava l’intorno, le montagne fatte di carta mimetica, ingrassate da giornali vecchi appallottolati, due palme sul dorso ammaccato, il cielo stellato, troppo stellato, fatto di carta lamé, appiccicato alla bell’e meglio con due pezzi di scotch, la capanna era sempre la stessa, col tettuccio spiovente e il ripostiglio per la legna. Erano vecchie le statuine di gesso, alcune mangiate dal tempo. L’asinello aveva le orecchie di feltro, al bue ne mancava una. Il mantello color castagna di San Giuseppe, in perfetta armonia con la tunica viola, era bianco da un lato e perdeva un poco di polvere. Fa niente, fa niente. La Madonnina, in rosa e celeste, era china, le braccia incrociate sul seno, in capo un velo bianco le copriva i capelli d’oro. Il Santo Bambino era tutt’uno con la mangiatoia e quello ero io, la più piccola di casa, a metterlo alla Mezzanotte tra mamma e papà, tra il bue e l’asinello. Tanti i pastori con le loro pecorelle e, lontani, in arrivo i Magi con un cammello a tre gambe…

Fuori, nel buio pece della notte, fischiavano i Basilischi, dentro, nel dolce teporino famigliare, nasceva il Bambinello. Era il Natale, mio, di tanti anni fa, quando tutti in casa preparavano il Presepe e si faceva a gara, a volte, a chi lo aveva più bello. Nei grandi magazzini si potevano comperare pezzetti di vita per renderlo più vero: il pane appena uscito dal forno, una fontanina che stillava acqua davvero, la famiglietta di papere da sistemar sul laghetto. Una tradizione che, nella mia piccola casa, resiste, anche se il figliolo non aiuta, come facevo io in entusiasmo e allegria… Pazienza e avanti nell’antico che è vivo. Pensate un poco che a inventare il Presepe, che significa, in semplice etimologia, “vicino alla siepe”, cioè area protetta, tranquilla, segreta, fu San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, il Santo dei Santi, chiamato anche Alter Christus.

Era la notte di Natale del 1223 e in un paesino della Valle Santa, Greccio, in Sabina, Francesco, già vicino alla morte, celebrò l’Eucarestia davanti a una mangiatoia che aveva per guardiani il bue e l’asinello. Una Sacra rappresentazione che doveva far entrare i fedeli nel Mistero dell’Incarnazione. Fu il primo presepe: in ginocchio, in adorazione, nel venite adoremus, tutti divenuti pecorelle o pastori. Molti anni dopo, tra il 1290 e il 1291, Arnolfo di Cambio scolpì in marmo il primo presepe con Maria e il Bambino, San Giuseppe, i Re Magi, il bue e l’asinello, Ancora oggi il capolavoro marmoreo splende nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove, come forse non tutti sanno, sono custodite le tavole della mangiatoia che fu culla del Bambinello. Il cuore palpita e chiudo gli occhi e mi pare anche io di essere lì, pecora io pure, nel freddo sabino che ben conosco, a Greccio dove, anni addietro sono andata, per vedere il luogo in cui nacque il Presepe. Non trovai che un bel paesino sabino, però…

A Roma per ammirare il presepe più bello, un presepe napoletano del Settecento, occorre recarsi alla Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tenuta da frati francescani, che è ricamo sul Foro romano. La meraviglia della scena grandiosa mozza il fiato! Al centro, la Sacra famiglia, incorniciata da colonne con capitelli corinzi, e tutt’intorno un brulicare di vita. Il cavallo bianco di uno dei Re Magi sulle gambe di dietro, come innervosito da tanta umanità. E nel caos apparente, il cosmo. Il presepe napoletano, infatti, ha regole precise (sono sei in tutto) e al centro di esso non c’è la Grotta Santa, ma Benino, il pastorello dormiente il cui sogno è proprio la visione della notte Santa di Betlemme. I venditori, poi, devono essere dodici, come i mesi dell’anno. E non possono mancare il pescatore che ricorda San Pietro, il vinaio chiamato Cicci Bacco, come l’antica divinità pagana. Se poi, come è accaduto a me quando sono andata ad ammirarlo, non ne avete avuto abbastanza, pochi passi, e nella Chiesa stupenda dei Santi Quirico e Giulitta, che guarda sul Foro di Augusto, potrete visitare il Museo del Presepe. Piccolo, raccolto, ma pieno di capolavori e di amore per il Signore. Infine, per adorare il Santo Bambino non mancate di salir le ripide scale medievali della Chiesa dell’Ara Coeli, anch’essa francescana, che si innalza a fianco del Campidoglio, dove è custodita una copia (l’originale è stato tubato negli anni Novanta) del Bambinello, veneratissimo nella Roma dei Papi. Quando il Santo Bambino, scolpito dal legno di ulivo dell’orto del Getsemani, veniva portato in processione per le strade dell’Urbe persino il Pontefice si fermava per farlo passare…

Ed eccomi a occhi chiusi nella stupenda Basilica di Santa Maria sopra Minerva che per soffitto ha volte dipinte di stelle nel firmamento dormiente. Buia è la notte in cui si schiude il Mistero, buio è il ventre della Madonna, fatto chiesa, nel quale noi, in santa trasformazione, accogliamo il Signore che ci trasforma e ci plasma a sua Immagine. In imitazione, appunto, di Cristo. Sono lì, dunque, nella basilica domenicana e davanti alla bellissima Cappella Carafa, affrescata da Filippino Lippi. Accompagno una coppia di australiani e spiego loro gli arcani di Roma e le radici cristiane che splendono nelle chiese e anche, qui e lì, nelle strade, ricche di Madonnelle e altarini. In primo piano, al centro dell’affresco, l’Annunciazione e poi, in carrellata, l’Assunzione. Siamo anche noi nella scena, come prima davanti al Presepe, attraverso il Cardinale Carafa che, in ginocchio, assiste ai Grandi Misteri. Dietro di lui, tenendogli benevolo una mano sulla schiena c’è San Tommaso d’Aquino, il grande Santo domenicano, autore della Summa Theologiae, le cui storie sono raccontate in questa stessa cappella, ma ai lati e su su fino in cima… Ecco, il senso dell’arte sacra nostra è, per così dire, figliola del Presepe. I pittori, tutti, sapevano che per capire il Mistero, bisognava entrare in esso, perdersi, affogarvisi… Noi, pecorelle, pastori, noi il Cardinale Carafa.

Il cerchio si chiude, apro gli occhi, sono a casa. E torno al Presepe. Questa volta al mio, romano, piccolo piccolo, seduto su una sedia presa dalla cucina. La stalla ha una cometa di carta sul colmo, che luccica di porporina. Nel cielo due angioletti fatti da me con il Das. L’anno scorso, in un bel negozio in Via dei Coronari, ho acquistato, per farlo più bello, degli uccellini piccolissimi che poso ai piedi di Maria. Sono un pettirosso e un codirosso. Sì, i due uccelletti che, per cercar di liberare il Signore dall’atroce corona di spine, intinsero, macchiandole per sempre di rosso, le piume nel Sangue Preziosissimo di Nostro Signore.

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