Oggi 11 novembre si celebra San Martino, protettore dei pellegrini, dei viandanti di un tempo. Ma l’11 novembre è anche noto per essere l’Estate di San Martino, legata proprio alla vita del santo. Ancora una volta dico grazie a Benedetta de Vito che ha scritto un articolo proprio dedicato alla giornata odierna.
Tornata da scuola, a sette anni o poco più, dopo il pranzo frugale preparato dalla Mimma, era tempo, per me, di tuffarmi col naso nell’erbe del giardino e poi, rinata nella rugiada viva, rifugiarmi nella stanza azzurra al pianterreno della villa dei miei genitori, dove abitava la nonna Lisetta, inferma, con le gambe gonfie, ma profumata di violetta di Parma e tutta immersa nei suoi santi. Che diventavano miei. Seduta a capo del letto, lei all’altro, ecco che apriva, con gesto solenne, infilandosi gli occhiali, un gran libro ingiallito dal titolo semplice: “I Santi”. Lei leggeva, io ascoltavo. Tutte le sante erano, per me, principesse e le loro vite prodigiose, toccate dal dito di Dio, avventure nell’invisibile che, lo sentivo già in quei primi anni nel mondo, era molto, ma molto più interessante del visibile. Dei santi, ora me ne vergogno, mi importava meno, perché erano maschi, come maschi erano i miei fratelli gemelli, i maggiori, che erano pieni di dispetti e sempre pronti a dar fastidio. Di uno di essi soltanto la nonna riuscì a farmi innamorare: San Martino di Tour. Perché, grazie a lui e alla sua feconda generosità, l’11 novembre, il freddo inverno si faceva estate d’oro e si poteva stare in giardino tutto il santo pomeriggio, fino a sera quando il campetto di pallone era attraversato dai voli pazzi dei pipistrelli. Io, in maniche corte, e quasi fiorivano le margherite…
Dedicata a San Martino, almeno per me, era poi una canzoncina allegra, iniziante così “Fra Martino campanaro…”. La nonna e io, il tramonto e l’alba, insieme festanti nel din-don- dan finale, ripetuto due volte, che ci regalava un tinnito lucente da portare in cuore per la giornata intera. E che ancora oggi in me risuona, nei tempi bui e in quelli sereni. Ma soprattutto, grazie a San Martino, la nonna mi iniziò, senza volerlo, alla filologia. Mi spiegò infatti che il mantello ( o almeno uno dei due pezzi) che il Santo aveva donato a un povero durante un acquazzone era conservato, dai re Merovingi, con devozione in un angolino di una chiesa. Siccome mantello, allora, si diceva “cappa” ecco che i fedeli, per amor di brevità (regola che sempre conduce le lingue di ieri e di oggi) dicevano “vado a pregare alla cappa piccola”. Cioè alla cappella. E quindi, per comodità, vado a pregare in cappella. Un altro piccolo miracolo del Santo francese acquisito perché era originario della Pannonia che oggi festeggiamo.
E siccome il gusto per la filologia e per le parole, da quel giorno lì, non mi ha lasciata, concluderei, cambiando d’abito, con un’altra etimologia che potrà togliervi le bende dagli occhi. Forse, e dico forse, per molti il Devoto-Oli è solo uno dei tanti dizionari che pesavano nella cartella per star poi seduto sul banco mentre noi si componeva, biro tra i denti e cervello in fiamme, il tema in classe. Per me, invece, sulla copertina di quel signor volume, c’è, stampato in tre per due, l’immagine di Giancarlo Oli, ancora vivo, in carne, sorriso e barba. Non ricordo più come e quando lo incontrai, ché se mi sforzo vedo solo lui ed io, al tavolo di un ristorante niente di speciale che galleggiava all’incrocio tra Via del Corso e Via della Croce. Ci trovavamo lì finché era vivo, una volta al mese (non di più), di rado, infatti, scendeva a Roma dalle sue colline toscane il professore, che era professore quanto io potrei essere, che ne so, una lappone. Di certo era una buona forchetta e soprattutto parlava della nostra bella lingua con l’amore di un padre. Gli devo un grazie, tra i molti, per aver – ad esempio – diradato le nebbie in cui veleggiavano nella testa mia, a braccetto, madama semantica e donna etimologia, un mistero a pagina tal dei tali della grammatica italiana.
E ve lo vado a spiegare come se stendessi i panni al sole, senz’arie né prosopopee, come faceva lui. Captivus, per l’etimologia che cerca le radici delle parole, vuol dire solo prigioniero. Ma per la semantica, che cambia il significato delle parole con il correr dei Secoli, il captivus diventa nientemeno che un captivus diaboli, cioè un prigioniero del diavolo, un posseduto. Cattivo è chi ascolta Lucifero, Satana, Bafometto e da loro si fa dirigere e portare. Fine della lezione. E concludo con una etimologia del caro Giancarlo per come me la regalò in una delle tante lettere sue che conservo in un cassetto, legate con un nastro verde. Così concludeva, con una scrittura minuta e regolare, una delle sue: “Destinataria, donna del destino”: etimologia linguisticamente priva di connessione e per altri versi assolutamente improbabile”. E anche se è novembre e siamo chiusi in casa dall’arcobaleno di Satana nel cuore fioriscono le margherite. E’ l’estate di San Martino!