Come scritto ieri, con l’equinozio nella giornata odierna, inizia l’Autunno.

Ecco che allora lascio qui di seguito lo spazio per la lettura di un breve racconto riferito proprio alla nuova stagione che inizia.

Il mio autunno

di Benedetta de Vito

A San Giuliano, d’inverno, nel vecchio casolare rosa della nonna Lisetta, la Eva apparecchiava la tavola con piatti che avevano sul viso candido solo un girotondo di foglie verdi primavera o color castagna. Volevo il piatto della rinascita, vestito di color verde allegria, dovevo avere quel piatto e non, per carità, quello di foglie secche, che mi sembrava musone, annoiato, triste. Mentre la Eva, china già negli anni suoi invernali, la crocchia d’argento, i panni neri, distribuiva a casaccio tra tutti i fratelli le porcellane sbeccate, io friggevo al mio posto di sorellina minore, finché non mi atterrava, come in miracolo, davanti al muso una ghirlanda color erba, profumata di minestra fumante e sorridevo contenta ai nodini d’oro in danza nel brodo…

Non mi piaceva il piatto di foglie color castagna, non mi piaceva l’autunno per come lo raccontavano in forma di triste vecchietto con una castagna al posto del cuore. Il mio autunno era verde, come le foglioline del piatto di San Giuliano. Autunno, per me, era la mia amata Sardegna a fine settembre, irrorata dalla piogge del cielo, che, stanca e stufa del caldo d’agosto, si profumava, invece, di una sua tutta misteriosa primavera. Intorno umidi umori si levavano dalle erbe, profumo di mirto e di lavanda. Lentischi e olivastri facevano all’amore nel cielo dorato, mentre ogni sorta di erbette e fiori gialli come piccoli soli facevano capolino nelle fessure del cotto dei terrazzi. Il mal tempo autunnale era mia gioia d’allora e quando sentivo i grandi lamentarsi del cielo grigio, delle nuvole e dell’acqua e ripetersi che bisognava tornare in città, tra me e me gioivo delle giornate che ancora mi erano concesse e indossando il kway rosso, i blue jeans, fuggivo in corsa via sulla spiaggia. Anche la pioggia mi piaceva in Sardegna perché, scendendo a ruscello sullo stradone di casa, che era di terra battuta, diventava color caffelatte e in gran corse, piegando sulle curve e leccando i muretti, si tuffava nelle onde del mare, colorando acqua e pensieri.

Il naso schiacciato contro i vetri, osservavo gli aghi sottili cadere e laggiù Tavolara avvolta nella panna montata, poi contavo, con malinconia, sulle dita i giorni che mi separavano all’imbarco. Tornare a Roma voleva dire mettere calze e scarpe, indossar la divisa, andare a scuola, far le visite con la mamma. Tutte cose che mi piacevano, s’intende, ma vuoi mettere pescar con le mani i serpentelli, la schiena nera baciata dal sole, i capelli di sole al vento… Le mareggiate autunnali poi portavano alla riva tesori: palette, elastici per capelli, a volte un canotto sgonfio bello, per me, come un piroscafo. La spiaggia deserta mi invitava come un magnete alle corse e quando pioveva l’acqua del bagno diventava un brodo primordiale e star dentro un piacere da vasca di casa.

Tutt’intorno poi non d’autunno parevano i colori, ma scintillanti, quasi di nuova primavera e la natura rideva, rinata. Fioriva il plumbago aprendo i suoi vezzosi ombrellini di fiori cilestrini, la lantana buttava le sue coroncine d’arancio e d’oro, i corbezzoli, palline arancioni nel verde, diventavano maturi e mangiarli, spinosetti com’erano, una gioia al palato. Nelle rocce, tutt’intorno, viveva , poi, nel ritrovato silenzio ancestrale, l’arcano dei sogni e trovavo nelle loro forme, modellate dall’ombra, aquile, mamuttones, tartarughe e anche i quadri di Juan Mirò… Ecco era questo il mio autunno e forse oggi, al desco dell’Eva, avrei preso io pure un bel piatto di foglie croccanti in veste di cioccolata…

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